“Prefazioso” (2000). Fare, non fare, pensare, non pensare: sono atti speculari, di cui il negativo è solo un simulacro del positivo. Tra loro non c’è vera differenza, ma dialettica; la differenza sta tra i diversi specchi. Prendiamo il silenzio che succede alla creazione, quale fu simulato da Marcel Duchamp nella seconda parte della sua esistenza. E accostiamolo al silenzio musicale, inscenato mentre la musica è comunque attuata, sia pure insonorizzata, certo in differita, quale fu invece materializzato come durata da John Cage, suo carismatico seguace. Duchamp, maestro di attimi, mi parla. Il suo seguace mi fa parlare: ma di che, scusi? Ecco, Cage, lo dice il nome, mi ingabbia. Non si collocò a lungo fra i miei maestri.
E’ il Creatore che riposa dopo la creazione, tacendo. Duchamp, che mai si diede al silenzio, se non quello di una partita di scacchi, passò dal giorno alla notte, dalla notte all’alba, affidando la sua opera ai vari cicli diuturni. Aveva creato un mondo ready-made e non volle che proliferasse, avendo orrore dei futuri Arman; né che infrangesse, più del vetro, le precise leggi che ne reggono l’evoluzione; e lo lasciò annottare e poi rinascere. Al contrario, il musicista Cage levò un giorno le mani dai suoni e dai pianoforti, dei quali sabotava le corde, e sospese i suoni ma non la musica: fu giocoforza chiamarla silenzio. A volte, esibì il silenzio in prima persona, davanti a tutti, chiedendo silenzio al coro, in un generale s/concerto; più spesso, tornò a comporre. Le sue leggendarie performance che non hanno secondi fini, né spirituali né fideistici, sono minuti di liturgia dell’ascolto di sé. Molto diverse, dunque, dall’ascolto del sacro in cui si immergono, io suppongo, i monaci trappisti; e dalla meditazione zen che oltrepassa anche il sacro per inoltrarsi nel vuoto. A Cage diedero sostegno lo Zen, nonché il Tao, nella fattispecie del “wu wei”, il non-agire. Mi spiace che li abbia tradotti in una sbrigativa pausa una tantum della liturgia del conta minuti.
Lo spettacolo del non-suonare ha però segrete risonanze magiche. La sua prima celebre piece – intitolata 4’33” – potrebbe riecheggiare un numero sacro del Taoismo (è stato già detto?) relativo all’armonia numerica della creazione dell’universo: ossia, 3 x 3 x 3 x 3, quattro volte tre – che moltiplica a 81, tanti quanti sono i passi del Tao Té Ching. E ciò nondimeno, Cage resta un “lao-tse” americano, un vero maestro, saggio e giocoso. L’ha compreso bene Hwang Inkyung, che gli affida con entusiasmo la guida del suo saggio, inizialmente concepito come uno studio centrato sul gruppo Fluxus. Ricordo la crescente passione in cui la giovane artista coreana ha affilato la mente solo su Cage: stava risalendo a un insegnamento degno di tal nome. E’ vero, il maestro di Silence ha l’ andamento socratico di uno Jedi dell’arte, un ragazzo magistrale, maestro (lao) e infante (tse) al contempo. Con Duchamp, Allan Kaprow, Paik e altri protagonisti di Fluxus, Cage è stato e resta fra i didatti sovrani del pensare artefatti senza confini al pari della musica.
Grazie, Inky, per avermi indotto a riconsiderare il mio disagio verso John Cage, mentre indirizzavo la stesura della tua tesi di storia dell’arte all’Accademia di Brera, da cui trae origine questo libro. Sei salita (provvisoriamente) sul “treno di Cage”, così come in passato i giovani più audaci salivano sul “convogli del Surrealismo” (André Breton ne fece partire almeno tre), viaggiando, come vedi, lungo la stessa metafora. Straordinario incontro con un viaggio storico che ha risposto al tuo bisogno di appartenenza solidale e ti ha cresciuta. Eri una scultrice, con Cage hai respirato musica, ora sei una videoartista.
(Insegnamento come arte? No, grazie. La chiamano Teach art. E’ la carta del tè).
Egualmente istruttivi, per i miei orecchi afoni, risultano gli echi ridotti che Hwang Inkyung riserva nel suo testo all’assimilazione della filosofia Zen da parte di Cage, come pure al ruolo del proprio connazionale Nam June Paik. Ne tratta bene quanto basta, ma non in primo piano, perché? E’ strano, poiché la Corea ha meriti antecedenti. Fu l’antico Paese dello yin e yang che consolidò il Ch’an cinese, alla confluenza della dialettica del Taoismo materialista con l’etica del Buddismo indiano, prima di consegnarlo allo Zen del Sol Levante. E’ stato Paik a fondare la videoarte nel segno della multimedialità digitale, offrendo la prima icona mondiale della cultura moderna a Seul, dove oggi è onorato con un museo. E Inky, tuttavia, l’artista coreana entusiasta di Cage come già lo fu Paik, oggi mantiene bassi i profili di costui e dello Zen, cui si richiamò anche lo sciamano del video.
Avrà le sue buone ragioni. La prima delle quali è che l’opera di Paik non riveste intenti didattici, affascina ma non insegna; lui stesso evitò sempre di atteggiarsi al ruolo di maestro, non essendo stato discepolo di nessuno. In scena era ilare e divertito. Come professore nella lontana Germania, in effetti, non fu granché solerte, preferendo restare a New York. Soffrendo di crampi allo stomaco, si stringeva a una borsa d’acqua calda anche al bar (così l’incontrai più volte) al modo con cui l’antico taoista cavalcava un bue. La seconda ragione è che Paik fu sodale di Bueys non meno che di Cage, tanto che la influenza della simbologia animistico-sciamanica sulla sua opera è più importante della influenza cageana. Quanto allo Zen, Paik l’ereditò alla nascita, Cage lo apprese dai libri.
E’ accaduto questo: che Lao Tse fu meno vincente di Confucio fin da tre secoli a. C.; che l’ordine pur sapiente del Confucianesimo, in quanto ideologia, complesso di idee dominanti, ha tenuto il sopravvento sulla molteplicità disordinata dei taoisti, che sapienti non vollero mai essere né saggi, fino ai nostri giorni, fino a John Cage. E prevale tuttora.
Come dire che l’oscurità del divenire viene tenuta al buio dalla luce dell’essere, sia pure artificiale. Le antiche nozioni orientali che ispirarono il suo lavoro (il caso, il non-agire, le mutazioni, fra altre), fornirono a Cage un disegno e un metodo, rivolti a educare in relax.
Più silenzio che rumore, più buio che luce. Qui si ricorda come Cage, un esperto micologo, ebbe inizialmente gloria popolare in Italia per aver risposto a tutte le domande sui funghi, le più velenose comprese, a “Lascia o raddoppia”. Ora, i funghi sono una rara forma di vita che cresce nell’oscurità, non avendo bisogno di luce né fotosintesi. Il buio è il fodero del silenzio, come la luce è la faretra degli schiamazzi. Sta anche in tale ombra, la mancata visualità plastica dell’opera di Cage, che stende un buio tra Duchamp e Paik.
Ogni insegnante aspira a lavorare con allievi di vaglia che possano rilanciargli il varco a un’altra esperienza istruttiva. I migliori allievi gli restituiscono l’entusiasmo per le discipline che condividono nella breve stagione di un corso di studio. E’ quanto il vagone di Kwang Inkyung ha fatto per me con l’elaborazione di questo libro. Gliene sono grato. E per dimostrarglielo, la invito a scendere dal treno di John Cage, il tempo di una sosta lampo, per dare un’occhiata alla lavagna di un’aula del Caltech, la prestigiosa università californiana, la sera in cui Richard Feynman vi concluse i suoi insegnamenti. Era il 1988.
Richard Feynman è il maestro che avrei voluto io. Lo considero un grande artista dell’insegnamento, benché trattasse di fisica quantistica con matematica ardua, di cui ho imperfetta ignoranza. Del resto, Feynman fu un meraviglioso insegnante, affabulatore e insieme enigmatico, a detta dei colleghi oltre che degli allievi. Lo testimoniano i suoi testi di scienza, che nella mia biblioteca stanno con la narrativa, e il fiume di registrazioni del suo fascino didattico. Finita l’ultima lezione, il prof restò solo in aula. L’indomani sarebbe stato ancora uno dei maggiori fisici americani del XX secolo, un Premio Nobel. Feynman tornò alla lavagna e scrisse: Non capisco ciò non posso creare. Uscì, restando in scena. Attualmente nessuno si domanda più cosa sia l’arte, poiché questa sta ovunque, nei panini inclusi. Dicono che l’Universo si è formato attraverso una fase inflazionistica: debbo avere perso parecchi milioni di anni di Universe Art. (Ma non sono sfuggiti a John D. Barrow, lo scienziato che ha scritto il bel libro An Artful Universe, un universo fatto ad arte). A chi mi chiedesse cos’è l’arte, risponderei che è entusiasmo, freddo entusiasmo, non frenetico. E c’è ancora qualcosa che non sia arte? Sì, ciò che faccio io: insegnare. L’insegnamento non è divenuto un’arte, l’insegnamento è sfuggito all’inflazione. Per ora. [Tommaso Trini, 2000]