Gilberto Zorio, Esordio e canoe 1967-2000

Prima mostra di Zorio alla Galleria Sperone, testo TT (1967). Di fronte all’opera di Zorio è inutile ricorrere agli schemi cor­renti, ultimissimi compresi. La nuova scultura, anche quella più elementare, appare molto concettuale rispetto a questo esordio nuda, totalmente fisico. Problemi di spazio, di forma, di struttura? No, poiché qui è facile constatare che: le masse hanno poco a che fare con lo spazio ambiente, le forme sono il passivo risultato di un’azione, e gli insiemi in cui ogni singolo pezzo si configura possono essere considerati come “de-strutture”. Zorio presenta un gruppo di lavori che mostrano l’azione e lo spettacolo di alcune leggi fisiche tanto elementari quanto assurde. Finalmente, ho visto degli oggetti dove i materiali, la materia, signi­ficano energia. Dopo Zorio, l’inerzia e la stasi di altre costruzioni si rivelano ancora più fittizie e superficiali. Qui troviamo invece la rappresentazione di una tensione continua. Ecco un tubo di eternit in bilico sopra delle camere d’aria; o un battacchio di cemento pen­dere come una spada di Damocle sul morbido poliuretano; o alcuni elementi tubolari torcersi e tendersi nonostante siano immobili, e lavo­rati con distacco. Zorio pare percepire in termini di massa energia continua. Ecco altri lavori che presentano lo svolgersi di tale fatto: l’acqua salata che è sul telo indica una forza che preme, ma rimane assorbita e contenuta; il blocco cilindrico di cemento si è sfaldato sotto il suo peso, senza contaminare la superficie che lo riceve. L’azione con cui Zorio s’impossessa delle cose del mondo è anche quella che trasforma il loro stato fisico in un altro. La sua energia resta visibilmente conservata nel lavoro – in uno spettacolo di energia potenziale. Questi lavori mostrano assai semplicemente che le loro masse sono in rapporto con un campo gravitazionale. E’ an­dare un po’ oltre l’ambiente e le sue leggi. Significa agire e pensare sulla base di leggi universali. Vedere la massa come energia, dopo Einstein, conduce a scoprire l’unità nella varietà, la necessità nella contingenza: tutto ciò e presente nell’opera di Zorio. Ha fatto, per esempio, un lavoro «colorato variabile»: anche il colore, che qui muta col mutare dell’umidità atmosferica, viene così affidato a leggi diverse da quelle estetiche. A-concettuale, sub-fisico se volete, il lavoro di Zorio ci pone diret­tamente in contatto con una visione dinamica dello strutturarsi del mondo, che l’arte in generale deve ancora scoprire. [Galleria Sperone, Torino 1967]

“Il soffio e il respiro”, testo TT (2000). Le loro opere elaborano anzitutto il fuoco e l’aria. Questa è la parte più atavica del loro genio. La parte più sensibile, nuova e moderna del lavoro di Gilberto Zorio e di Giovanni Manfredini consiste, strano a dirsi, nell’elaborare il soffio e il respiro: in quei primordi, sì. L’arte, dopo il moderno, deve respirare. Guarda, se respira, è arte. L’oggetto d’arte è una forma di vita? Può darsi, io lo sospetto, pur ammettendo che  l’arte rimane comunque una forma di vita ancora sconosciuta come tale. […] Ci sono pitture e sculture che meritano poi di essere “respirate” con lo sguardo. Così ho sempre avvicinato l’opera di Zorio, da quando la presentai nel 1967. E così pure guardo da qualche tempo l’opera di Manfredini, cui questo testo  è prevalentemente dedicato. Con i miei sospiri che esse turbano, non saprei dire quanto. Prendere fiato e, assieme a esso, l’afflato. Trattenere il fiato e, con esso, il rischio. Provare a esercitare la visione ferma del critico come se fosse un metabolismo ermeneutico, per sondare le perturbazioni che gli oggetti di questi due artisti hanno introdotto nel loro incontro. C’è disordine nelle reciproche perturbazioni più che ordine nelle loro molte assonanze. […]

Da Malevic a Zorio, da Redon a Manfredini, la opera al nero assomma un tempo che ormai pare più lungo dell’intero arco delle figure nere sviluppate dalla pittura vascolare attica. Non occorre risalire alla ‘nigredo’ alchemica per capire l’ala nera che volteggia dagli autoritratti dell’ultimo Cézanne alle plastiche bruciate di Burri; è sufficiente fermarsi alla negritudine delle Demoiselles  di Picasso. L’oscurità dell’epoca ha tuttavia i suoi bagliori. “La luce esiste nell’oscurità“, dice un antico testo cinese, sacro allo Zen, “nell’oscurità esiste la luce”. Non si può negare che la pittura embrionale di Manfredini mostra anche questo, fra l’altro. Come dice un altro testo, che è il canto della concentrazione, è proprio al centro del buio che si può cogliere la verità, quando l’alba non è chiara. O nel mezzo di un sibilo, là, dove la canoa è più nera, se osservo un’opera di Zorio. La loro è l’arte della mezzanotte. […] L’opera di Zorio sviluppa in prevalenza l’espirazione, l’espansione, l’oggetto al positivo, mentre l’opera di Manfredini approfondisce l’inspirazione, l’attrazione e l’immagine al negativo: poi li capovolgono. […] Anche la frequentazione della scultura di Zorio mi ha procurato lo stesso ping pong, incalzante di scoperte lievi fin dalla sua prima colonna del ‘67. Ma a quel tempo il nostro orizzonte era giovanile e indisciplinato. In quel pezzo iniziale di Zorio, senza titolo, una camera d’aria posta a terra regge, in precario equilibrio, il peso di un’agile colonna di eternit. Il tubo di gomma rigonfio è piegato ad anse come un fiore sotto quel corpo verticale; e già annuncia la futura forma a stella tanto cara all’artista (che considererà la stella come un autoritratto cosmico); mentre la colonna in bilico perde rigidità e sembra fare un passo verso il movimento (“la paragono all’essere umano”, dirà bene Celant). Quella membrana che ritiene l’aria è il respiro sospeso dell’uomo. A quel tempo, non avrei saputo notare che Zorio ripiegava un “fiore d’aria” dopo un atto d’inspirazione, nello stesso periodo in cui Jannis Kounellis, invece, dispiegava un “fiore di fuoco” nell’atto stesso di espirare. Oggi, vorrei – con l’aiuto del Kigong, tanto antico quanto attuale, per il nutrimento e il controllo del respiro e dell’energia -  esercitare la colonna di Zorio nella tecnica basilare del “palo eretto”, in cui il corpo, esternamente immobile, “sostiene il cielo” (dice il cinese), mentre sviluppa l’attività degli organi interni nel classico “movimento senza movimento”. E poi, nella camera  d’aria anseata, anche il lettore noterebbe, a questo punto, figure di polmoni o di reni. […] Viceversa, le sculture sempre areate e spesso sibilanti di Zorio ci fanno addentrare letteralmente – tra soffi e respiri, laser e luminescenze, alcool volatili e sirene urlanti – all’interno di fenomeni plastici ed energetici a lunga gittata simbolica. La loro azione si dirama lungo una circolazione-inspirazione intracorporea  fra corpi disuguali. Non solo infonde energia alle cose inerti, ma anche rende umane molte cose inorganiche. Dov’è che l’opera di Zorio sospende il respiro? Nello zittirsi del sibilo, che è il grido primale  dell’energia che si risveglia. Come pure nel segnalare un “confine”, una magnitudine “stellare” o l’interiorità di un “maiale”. Sta, l’arte, come perla nel porcile. Oppure si spegne, se lo spettatore non è là. Qui, gli oggetti mossi da elettricità o connessi con l’elettromagnetismo universale “muoiono” in modo sonoro e plateale. Per loro, inscenare la vita vuol dire anche mimare la morte. L’arte di Zorio ha una vitale cognizione del suo stato inanimato che non ritiene irreversibile. Ha vita latente. […] Zorio ha dato forma al soffio e continua a fare respirare la materia. Lui l’ha detto: la sua arte oppone la vita alla morte, equivale a atti di magia che scontrano la morte. Potrei aggiungere: il soffio solo non basta; il soffio è degli déi; e gli déi non bastano. Zorio modella il soffio e il respiro in oggetti vettoriali che sono chiaramente dotati di energia in atto e di moto virtuale. Essi hanno i movimenti respiratori della plasticità incessante col quale l’artista plasma ogni cosa. Le sue mani “animose” trasmettono agli oggetti inanimati sguardi e pensieri che non separano più le cose inanimate dalla materia animata. Di questa “mano che pensa”, gli effluvi alcoolici e i sibili assordanti sono il canto, il giavellotto è il getto spermatico, certi calchi in piombo o cuoio sono il sudario, la canoa nera è il feretro. Anche qui, tutto finisce in morte? No. Zorio dice che la canoa è il giavellotto dell’acqua. Ne deduco che essa attraverserà il fiume tra la vita e morte per abbattere questa e per fecondare quella. Certo, le canoe di Zorio sono spettrali, ma non più delle fucine degli alchimisti. La canoa esposta a Modena è di quelle spezzate, ma in questo caso si estende sibilando per azione di un motore, pare recuperare la sua integrità, poi di colpo collassa sullo stantuffo, esausta. E’ una protesi fabbrile, forse pietosa, forse crudele. [Rosanna Ferri, Modena 2000]

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