Mark Rothko è morto suicida il 25 febbraio scorso, aveva 67 anni. Notizie avare giungevano in questi ultimi anni dal suo studio di New York, avare e sospese. Lavorava in pienezza e lucidità, e forse anche nel dubbio, a un ciclo di vaste tele; dominate, si diceva, dall’incombere sempre più massivo del nero; ma chi vedeva questi quadri e la rinnovata immersione dell’autore, raccontava di una nuova felice stagione. Non ci sarà così nulla da dire sulla sua morte, se non che ha riconsegnato Rothko all’estremo cliché dell’autodistruzione tanto connaturato alla sua tormentata generazione.
La Scuola di New York lo contava tra i suoi leaders più prestigiosi, ma anche fra i più isolati spiritualmente. Con William de Kooning, Clyfford Still, e Barnett Newman, Rothko era la testimonianza e il confronto vivente dell’epoca d’oro: gli anni 1940, critici e germinali; i favolosi anni ‘50 con l’affermazione dell’espressionismo astratto e la consacrazione di New York a ombelico mondiale dell’arte. Ma non si trattava di sopravvissuti ai tre grandi monumenti: Gorky l’iniziatore, Pollock il dio panico di una intera generazione che s’era ritrovata dietro di lui, e Kline il più americano di tutti. Gli anni ‘60 li hanno visti al contrario tornare, specie Newman e Rothko, all’orizzonte delle nuove generazioni e sul riflusso dell’arte pop. Per i freddi e colti distillatori dell’arte minimal, Newman costituisce la coscienza formale e Ad Reinhardt, un altro solitario, quella intellettuale. Meno facile sarà individuare il ruolo di Rothko, e per chi scorra le storie dell’America espressionista astratta non è una sorpresa: questo ruolo non è mai stato chiarito. Non sarà facile perché l’opera di Rothko si scosta, dopotutto, tanto dall’action painting e correlativa matrice surrealista quanto dalle convenzioni espressioniste, per sintonizzarsi con l’impressionismo sopravvissuto alla lezione cubista. Ma al di fuori di questa mappa segnaletica, la sua pittura dalle coordinate mentali si collocava a monte dell’arte fredda ed essenziale di questi ultimi anni. Nel ‘67 era intanto scomparso colui che forse più ammirava, Reinhardt.
Alla mostra-mammuth del Metropolitan Museum of Art, lo scorso dicembre a New York (1), i trent’anni della Scuola di New York apparivano sagacemente profilati secondo la prospettiva più recente e gli amori attuali del curatore della mostra, Geldzahler. La pittura post-espressionismo astratto, che l’esplosione pop aveva relegato ai margini dell’establishement artistico americano, ritornava in forza per prenderne le redini. Le sale di Morris Louis, Kenneth Noland, Helen Frankentaler, Jules Olitski e Frank Stella in particolare, dominavano abbacinanti ma non sempre convincenti — ma la consacrazione storica della color field painting era cosa fatta. Il critico formalista Clement Greenbcrg poteva finalmente stoccare Harold Rosenberg, per l’occasione uscito dai gangheri sulle pagine del New Yorker. Ciò che la prospettiva della mostra aveva tradito, secondo Rosenberg, era la condizione esistenziale stessa della pittura d’azione, lo spirito dei maestri orientati verso l’anti-arte; qualunque cosa fossero i figli che si volevano dar loro, erano per l’arte-arte e le sue considerazioni estetiche volte solo a fornire all’arte risposte formali.
L’insistenza sul colore tracciava così un arco che da Still, e dai contrasti attivi di tinte pure delle sue tele innovatrici, si congiungeva alle campiture geometriche di Noland, atmosferiche di Olitski, ecc. Un arco che passa qualche po’ discosto da Rothko e lo passava, con strana evidenza, anche nella mostra di Geldzahier. La sala di Rothko era infatti in sordina; comprendeva dieci pezzi, tra cui tre acquerelli, sia pure storicamente significativi. Persino un Gottlieb, pièce à démonstration della differenza tra i color painters, che agiscono per campi o aree di colore, ed i loro possibili predecessori, che agiscono invece per forme, era meglio rappresentato. È durante quella visita che Rothko mi è parso isolato nel contesto cangiante delle filiazioni. Salvo poi a trovare a casa nostra un suo giovane amico e seguace in Carlo Battaglia. Al di là di una generica influenza su artisti come Flavin e Judd, il suo studio della luce – e non del colore – sembra averlo limitato a un caso limite a sé (strano, ma ciò si ripete con Flavin). Resta recepito sul piano ottico e non avanza su quello più propriamente intellettuale dello sviluppo delle idee.
Rothko era insieme europeo e americano, ed è più probabile che non fosse né l’uno né l’altro. Se l’essere orientale, cioè soggettivo, nondiscorsivo e assolutizzante, è un modo di visione della realtà, la sua visione era orientale. E non perché, come si è detto sovente, fosse contemplativo e mistico — qualità, queste, troppo facilmente deducibili e applicabili da altri al suo lavoro. Si veda il tratto più originale della sua pittura: la fonte luminosa è nascosta e concentrata, come se fosse posta dietro la tela. Non c’è separazione alcuna sull’asse luce-colori-occhi, ciò che fornisce, inversamente, il senso di immersione avvolgente così tipico di fronte ai quadri di Rothko.
Nato a Dvinska (Russia) nel 1903, si era stabilito negli Stati Uniti nel 1913; l’anno del pannello a guazzo Les Marocains di Matisse, in cui la luce naturale, per effetto di saturazione, riduceva la rappresentazione ai limiti dell’astratto. La luce di Matisse farà da guida a Rothko, che nel ‘53 dipinge un Omaggio a Matisse. Intanto, però, la dipendenza di New York da Parigi, negli anni ‘30, comporta tutta una serie di esperienze diverse, convergenti verso tecniche e metodi surrealisti allorché, durante la II guerra mondiale, i maestri di Parigi, Breton in testa, si rifugiano negli Stati Uniti. Trascorrono dodici anni tra la prima e la seconda personale di Rothko, ma questa, nel ‘45, si tiene alla galleria “Art of this century” di Peggy Guggenheim. Due anni dopo, è l’evoluzione che dà l’avvio all’opera maggiore.
Negli acquerelli del ‘47 – esposti da Geldzahler al Metropolitan Museum – vediamo Rothko passare dalla scrittura surrealista opacizzata di Vessels of Magic all’impianto decisamente astratto di Fantasy. Più indicativo e completo l’iter dell’opera così com’è articolata a Ca’ Pesaro di Venezia (2), in questa estate ‘70. Nei due quadri iniziali intitolati Multiform il processo d’astrazione è ancora impigliato in tracce di un possibile soggetto o nella composizione delle taches di colore; nonostante i titoli, tuttavia, non ci sono forme, ma piuttosto aree o zone di colore. A differenza dei surrealisti, che procedevano dall’automatismo al soggetto, Rothko procede chiaramente dal soggetto all’astrazione. Come Matisse: « Comincio sempre con qualcosa — una sedia, un tavolo — ma via via che il lavoro procede, divento sempre meno conscio di questo. Alla fine non mi ricordo quasi più del soggetto con cui ho cominciato ». Sulla scorta di un tale approccio al quadro, non è difficile immaginare che per Rothko conseguire valori luminosi mediante il colore era un punto d’arrivo, e che il punto di partenza era situato dietro la luce idealmente collocata dietro la tela.
Ma questo « qualcosa » dietro la luce non originava dalla sua immaginazione. Come Gorky e tutti i grandi espressionisti astratti, Rothko ha costantemente lavorato dalla natura. Gli anni ‘50, quelli della sua produzione più alta, lo vedono partire dal colore; d’ora in poi, intitola tutti i suoi quadri coi nomi dei colori. La sua natura è il colore, con la propria materia, la propria energia. Tanto accanimento, però, ha questo risultato: che svaluta l’elemento pittorico. Greenberg, nel ‘62, lo rileverà puntualmente: « Likc so much of painterly art before it, Abstract Expressionism has worked in the end to reduce color’s role » (3). Per l’astrazione geometrica di Newman e Reinhardt, il pittorico si svaluta a favore della costruzione non pittorica e intellettuale della superficie. In Newman è lo shape, e l’hard-edge, il contorno lineare che apre lo spazio del colore. In Reinhardt è il colorless e la ridotta visibilità, l’incolore che ha nella simmetria della trisezione cruciforme della superficie un ruolo reyective, di rifiuto (e Lucy Lippard potrà dimostrare che nell’ideologia sottesa dai suoi « quadri neri » il colore non è necessario). Solo in Rothko la riduzione del pittorico verso il nonpittorico conclude al trionfo del colore-luce.
In un celebre articolo di Robert Rosenblum (4) i « concetti più eretici » degli astrattisti americani (Rothko, Pollock, Still, Newman) sono stati posti in relazione con la pittura visionaria del movimento romantico e la loro estetica del Sublime. Un quadro di Rothko viene paragonato a due marine di Caspar David Friedrich e William Turner, dove si possono notare, incastonate tra mare e cielo, le figurine, rispettivamente, di un monaco e di un pescatore; l’affinità nel sentimento del sublime è sorprendente, coadiuvata dalla grandiosità delle dimensioni. E Rosenblum aggiunge: « Nel linguaggio astratto di Rothko, tale dettaglio / le figurine / — un ponte di empatia gettato tra lo spettatore reale e la presentazione del paesaggio trascendentale — non è più necessario; siamo noi il monaco davanti al mare, in silenzio e contemplazione davanti a questi quadri vasti e insondabili come se stessimo osservando un tramonto o un plenilunio. Al pari della mistica trinità di cielo. acqua e mare, che in Friedrich e Turner sembra emanare da una fonte non vista, gli ondeggianti ordini orizzontali di luce velata in Rothko sembrano dissimulare una presenza totale e remota che possiamo solo intuire senza mai riuscire ad afferrare ».
La lettura di Rosenblum è pregnante, certo fascinosa, pure non apre alla comprensione dell’opera più di quanto possa fare un monaco (tra l’altro, se Reinhardt poté difendersi dall’essere chiamato « the black monk », il monaco nei-o, più difficile sarebbe stato per Rothko di impedirci di credere che il monaco siamo noi). A voler concludere su sospensioni « metafisiche », si finisce per eludere le certezze iniziali: l’arte, il suo linguaggio, la specificità di un linguaggio nei confronti di un altro. Poche opere come quella di Mark Rothko impongono la nostra presenza e la visione diretta — di essere contemplate e non soltanto di essere conosciute. Particolare non trascurabile che conferma a sua volta l’originalità – il tratto specifico di Rothko – di considerare il colore non più un limite (come ancora Cézanne: « Il colore è il luogo in cui il nostro cervello e l’universo si incontrano »), bensì un raccordo di fluidità su quell’asse luce-colore-occhi che abbiamo visto senza soluzione di continuità. Rothko, cioè, potrebbe aver visto il colore, e la natura attraverso di esso, con la stessa confidente immersione con cui il pensiero primitivo, si dice, considerava il mondo non in termini di « esso » ma in termini di « tu ». Un colore-luce percepito non come entità astratta ma come elemento vivente. Quale che sia la direzione, l’avanzamento dei problemi ottici della pittura prodotto da Rothko non rassomiglia ad alcun altro rinvenibile nell’arte occidentale contemporanea.
[Tommaso Trini, Arte Illustrata n. 30-33, Milano giugno-settembre 1970]
(1) New York Painting and Sculpture: 1930-1970, una mostra al Metropolitan Museum di New York, curata da Henry Geldzahler, dicembre 1969.
(2) Mark Rothko, un’esposizione al Museo d’Arte Moderna Ca’ Pesaro di Venezia, curata da Guido Perocco, giugno-ottobre 1970.
(3) Clement Greenberg, “After Abstract Expressionism” in Art International n. 8, 1962
(4) Robert Rosenblum, “The Abstract Sublime” in Art News n. 10, 1961
(riprodurre 2 o 3 pagine della rivista con 1 opera ciascuna)
1. Multiforme, 1947; olio su tela, cm 226×165. New York, Marlborough-Gerson Gallery Inc.
2. Multiforme, 1949; olio su tela, cm 203×99,5. New York, Marlborough-Gerson Gallery Inc.
3. Ruggine, neri su prugna, 1962; olio su tela, cm 152,5x 115. New York, Marlborough-Gerson Gallery Inc 4. Rosso, nero, bruno su marrone, 1963; olio su tela, cm 228×175. New York, Marlborough-Gerson Gallery Inc. 5. Nero su grigio, 1970; acrilico su tela, cm 175x 233,5. New York, Marlborough-Gerson Gallery Inc 6. Senza titolo, 1968; olio su carta montato su tela, cm 84×65,5. New York, Marlborough-Gerson Gallery Inc.