Una pittura è assimilata oggi sia a una pietra preziosa sia a una reliquia. Ora che non si demonizza più il mercato, è anche giusto non separare più il sistema dell’arte dalle altre strutture dell’esistenza. Quantità copiose di oggetti d’arte circolano in quel recinto del sacro che è la rinnovata venerazione economica del potere delle immagini. Musei e collezionisti e caveaux e raccoglitori scavano una rete sempre più richiesta di piramidi comunicanti che ne celebrano il culto. Ecco infine che alle avanguardie che già si protraevano oltre le barriere, sono succedute folle che sbarrano l’aldilà.
Una pittura può smaterializzarsi in un concetto oppure rendersi invisibile nella leggenda, poco importa: sempre e comunque, rappresenterà qualcosa di assai prossimo all’immortalità. Invece di morire in sede storica, l’arte ha cura della vita e in sede storica la imbalsama. Nessun oggetto si è mai tanto smaterializzato in una pura idea quanto gli odierni oggetti d’arte che materializzano in una firma, in una cifra, lo spirito dei morti. Finalmente ricca, quantunque funerea nella sua allegria, l’arte è tornata ad essere quel complesso di pratiche che assicura la continuità della vita dopo la morte nelle piramidi. E all’ombra di questo monumentale deserto che sussurriamo i canti. La pittura di Nigro rischia da quarant’anni la solitudine dell’ombra e del bisbiglio. Lo ripeto ad apertura dell’ennesima nota su un’opera che ammiro: l’arte di Nigro resta ancora sottovalutata. E’ come una pioggia sulle piramidi. Non si è mai addestrata alle mitologie personali, non ha convissuto con la morte, non sa offrirsi alla venerazione economica. E’ una pioggia che ha sete.
L’arte un tempo costruttiva di Nigro evolve nelle sue forme di cristallo, e questa è la sua natura schiva. Conserva ancora, nel corpo dell’opera, un moto di rivoluzione segnato da ampi cicli e un moto di rotazione segnato da piccole serie. Le geometrie danzanti del cristallo di Nigro sfaccettano l’infinita complessità dell’esistenza, e questa è la loro vulnerabile passione. L’artista ha dapprima tagliato il suo cristallo nell’ordine concettuale delle idee e poi ne ha fatto scaturire iridescenze e luci nel disordine dei sensi e dei sentimenti. La linea s’accompagna alla macchia, la ragione al mistero e la necessità al piacere, e questa è la coerenza del diamante. Inoltre, smitizza. Il cristallo liquido di Nigro non fa reliquia, questa è la sua purezza. Nel novembre 1989, la rivista Artforum ha pubblicato una serie di nuovi acquerelli di Nigro sotto il titolo avventuroso di Dipinti satanici. Ampie tele ancora più luciferine sono seguite a queste carte. Si tratta dell’ultimo ciclo fin qui concluso dall’artista. Percorse da cumuli ascensionali di pennellate, da lingue orizzontali di fuoco, queste superfici sono simili a pire ardenti, a braci sconfinanti oltre la tela. Invece di avvampare illusioni e miraggi, esse mostrano che dipingere è una combustione. La loro trama di colori infuocati si discosta nettamente dall’aereo ordito verdeggiante del ciclo immediatamente precedente dei Cipressi, pubblicato nel fascicolo estivo di Tema Celeste. Si direbbe che i due cicli si diversificano come l’inferno rispetto al purgatorio. Ma si deve aggiungere anche che essi si susseguono come l’estate dopo la primavera. I colori delle stagioni adombrano l’unico referente alla realtà intrattenuto dal lavoro di Nigro, che alle loro dominanti cromatiche e alla loro musicalità o ritmo dedicò esplicitamente una serie, Stagioni, negli anni Sessanta. E tuttavia i suoi olii e i suoi acquerelli restano colori artificiali, colori di interni regolati dalla luce dello studio. Ciò cui Nigro si riferisce sono, non la natura e la vegetazione, bensì le stagioni e il trascorrere del tempo. Ciò che aborre è la condizione meteoropatica dell’arte. In una lunga nota tanto concisa quanto esauriente, la direttrice di Artforum, Ida Panicelli, ha così descritto questi ultimi lavori: «Si può leggere il loro aspetto “satanico” nella subitanea e quasi violenta rivelazione della loro immagine, mentre Nigro tenta di afferrare voluttuosamente l’universo naturale che momentaneamente intravvede attraverso la “finestra” aperta della sua tela. Rapide pennellate “impilano” i colori da cima a fondo, e scienza e sensi, precisione e passione s’incontrano nell’immagine». È appena il caso di notare che l’artista si è concesso l’aggettivo “satanico” per gioco. I mass media hanno bisogno di macinare titoli e dettare un titolo come “dipinti satanici” sul filo impellente del telefax e sull’onda di un clamoroso fatto di cronaca (un romanziere minacciato di morte a causa dei suoi “versetti satanici”) ha dato luogo tutto sommato a una felice improvvisazione: c’è dello zolfo in queste pitture di Nigro. D’altronde, dai Terremoti del 1980 tutti i suoi cicli bilanciano la riduzione dei segni costruttivi con l’espansione evocativa dei nomi. Elenchiamo i loro titoli: terremoto, orizzonti, orme, ritratti, cipressi, dipinti satanici; e abbiamo la sequenza di un film d’avventura, ricco di premonizioni. Alla geometria della misura di Mondrian, la pittura di Nigro ha sostituito la geometria della danza che si leva per scomparire e, scomparendo, ricade a un passo di distanza; e in questa astrazione ha sempre levato un sentimento più prepotente dell’amore, più strutturale della libertà: il senso della direzione del tempo. Nessun pittore contemporaneo ha tanto coreografato l’andare del tempo nell’esperienza di un individuo quanto ha fatto Mario Nigro. Picasso negava all’arte non oggettiva ogni possibilità di riflesso sociale e all’astrattismo geometrico che nulla rappresentava pose la fatale domanda: dov’è il dramma? Gli verrà risposto che il dramma è già insito nei linguaggi e che anche la forma del cristallo ne ha uno. […] Neocostruttivista dalla metà degli anni Quaranta, dopo avere precocemente esordito con una figurazione novecentista venata da introversione metafisica, Nigro ha introdotto il dramma nella astrazione geometrica sotto forma di conflitto tra il progetto e il destino. Un conflitto reso visibile a sua volta dall’antagonismo tra la superficie e il supporto che a lungo è servito a interdire ogni possibile rigurgito della funzione rappresentativa. Nei “reticoli” del grande ciclo dello Spazio totale iniziato nel 1952, nei “rombi” del Tempo totale iniziato nel 1965, nel loro attanagliarsi su ritmate cadenze di controllo, leggiamo ancora i sintomi grafici di quel conflitto; e in essi ritroviamo, come pure nelle “aste” delle Strutture fisse con licenza cromatica avviate nel 1967, lo strumento di quella laica interdizione. Quale dramma? I conflitti di un pittore riformatore, anzitutto, che è anche un intellettuale comunista nel corso della guerra fredda. Su Nigro incombono, con le barbarie delle guerre, i naufragi ideologici della lotta visionaria di Malevic per una società rivoluzionata. e dell’aspirazione riformatrice di Mondrian a una società serena; ciononostante, caparbiamente si ostina a volere cambiare l’arte e, con o senza l’arte, anche la società civile. Evidentemente, naufragherà lui pure. Essendo uno dei pochi artisti italiani a riprendere in mano il timone del razionalismo e del costruttivismo, il pittore toscano trapiantato a Milano si rende presto conto che gli amatori d’arte italiani non hanno occhi per l’arte “non oggettiva”, non sanno guardarla; d’altronde, a quel tempo, stentano ancora a vedere il fegato del futurismo e lo sguardo della metafisica, entrambi italiani. Evidentemente, questo pittore rischia di essere ignorato; tanto più che l’intellettuale comunista riceve dal suo partito togliattiano accuse e dinieghi ben orchestrati, che isolano gli astrattisti borghesi gli uni dagli altri. A Nigro pare sfuggire il destino dei suoi migliori progetti. Ne uscirà davvero sconfitto? Non proprio. Dipingere è una coazione a raffigurare; e ogni figura è l’altro da sé. Scrivere è ripetere il medesimo; e la scrittura è una coazione a legiferare. Pur dimostrando che il ciclo dei Ritratti null’altro ritrae se non la pittura proliferante, ci resta da spiegare come esso abbia aperto la successiva serie dei Dipinti satanici, dove è questione di volti diabolici e proiezioni interiori. Una risposta prevede che il titolo (che è un commento dell’artista) denunci la sua volontà di essere blasfemo. Nigro, in effetti, avrebbe abiurato al dogma della sua arte che non rappresenta e non raffigura. Che Dio ce lo preservi così, questo maestro oggi settantenne e lucifero. C’è un’altra risposta. Lucifero ha disturbi alla vista e ha qualche difficoltà nell’essere portatore di luce; inoltre, dipingendo per sete, tende ad alluvionare le tele più recenti. Sicché la serie “satanica” tende a recuperare l’ampia strutturazione della superficie degli iniziali “reticoli” spaziali degli anni Cinquanta; abbandona la seriazione dei “punti” degli Orizzonti e delle “macchie” delle Orme per compattarsi in un unico fuoco, una pira diffusa, un muro che ascende. Le tarsie orizzontali di fuoco e di terra rivisitano con carnale voluttà le volute dei disegni neri che il pittore strutturava con rabbia ai suoi inizi. C’è nell’opera di Nigro un’esperienza psicologica formale del tempo di vivere e del tempo della pittura che ha proporzioni “divine”, direi. [Tommaso Trini, Galleria L’Isola, catalogo mostra “Orme, ritratti e... satanici 1987-1989”, Roma 1990]