Mario Nigro – “Dipingere per sete” (1990)

Una pittura è assimilata oggi sia a una pietra preziosa sia a una reliquia. Ora che non si demonizza più il mercato, è anche giusto non separare più il sistema dell’arte dalle altre strutture dell’esistenza. Quantità copiose di oggetti d’arte circolano in quel recinto del sacro che è la rinnovata venerazione economica del potere delle immagini. Musei e collezionisti e caveaux e raccoglitori scavano una rete sempre più richiesta di piramidi comunicanti che ne celebrano il culto. Ecco infine che alle avanguardie che già si protraevano oltre le barriere, sono succedute folle che sbarrano l’aldilà.

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Mario Nigro – “Mario Nigro, il 1956”

“Disquisizioni: dai dipinti satanici ai cipressi, ai ritratti alle orme, agli orizzonti, con particolare riferimento alle Tensioni reticolari del 1956”, conversazione di Mario Nigro con Giovanni M. Accame, Claudio Cerritelli e Tommaso Trini. Galleria Cardi, Milano maggio 1991.

Claudio Cerritelli. Partirei dall’occasione della mostra e dal testo di commento che Nigro ha scritto per precisare alcune riflessioni che certo vanno oltre il linguaggio pittorico in senso stretto. La frase che mi ha colpito è quella in cui Nigro parla dell’uscita dal razionalismo (i quadri sono del ‘56) per un ordine geometrico sconvolto. Sarebbe interessante verificare in quali altri momenti del percorso di Nigro è indicata questa idea di uno spazio “sconvolto” e che diverso o identico significato può assumere. Vorrei sottolineare inoltre che nel testo di Nigro la parola “scon-volto” è scritta con la linea che divide – vale a dire scon-volto – come era in uso negli anni sessanta. E’ forse un aspetto senza significato preciso, però esiste…

Mario Nigro. Dopo il «terremoto» mi hanno chiamato sconvolto in senso polemico come fecero i Dabbeni in un’intervista… anzitutto voglio specificare cosa intendo per costruttivismo. Il costruttivismo è necessariamente legato ad un ordine geometrico razionale? Questa è una domanda che ti faccio. Seconda domanda: uno sconvolgimento geometrico induce per forza di cose a classificarsi come informale?

Giovanni Accame. Mi sembra infatti che uno degli aspetti più originali e interessanti del tuo lavoro sia quello di aver collegato la razionalità, la componente costruttiva, con fattori di drammaticità. Di aver indicato un superamento della razionalità classica, fatta di ordini e certezze, in favore di una ragione complessa, dove trova spazio l’emotività e la trasgressione. Non dimentichiamo che Mondriaan dichiarava di voler eliminare il tragico della vita, rimuovendo la dimensione imprevedibile della natura e sostituendola con un ordine pianificabile e dunque prevedibile. Nel tuo caso invece fatti reali della vita ti hanno portato, già dai primi anni Cinquanta, a introdurre mutamenti nella tua strumentazione linguistica di matrice astratto-geometrica. Ecco allora gli sfondamenti strutturali, le accelerazioni di ritmi, distorsione di spazi, che vediamo anche qui, nei tuoi quadri che abbiamo sotto gli occhi.

Nigro. È proprio questo il motivo, anzi ci sono due motivi che mi allontanano dalla severità di Mondriaan. Uno è che ho vissuto intensamente l’intervento americano in Italia, io dico molto chiaramente che gli americani hanno sconvolto la vita italiana. L’altro motivo è la delusione progressiva dell’Unione Sovietica che doveva essere una bandiera e che piano piano si è trasformata in uno stato che doveva difendersi, ma per farlo ha dovuto assumere delle posizioni di stato a potere capitalista. Ecco, il 1956 è la somma di queste due influenze. E chiaro che il mio quasi severo razionalismo va a monte, passato questo periodo, nel ‘59 riprendo il discorso.

Accame. Vorrei riportare l’argomento sui quadri, mentre parlavi li riguardavo, questi che abbiamo qui del ‘56, e notavo come tu abbia agito su tre componenti contemporaneamente. Una griglia di matrice astratto-geometrica, di provenienza razionale, che però disponi e strutturi già con andamenti e modalità cariche di tensione, di movimento, di alterazione degli spazi. Abbiamo quindi una struttura geometrico-razionale che si fa inquietante di per sé, pur mantenendo ancora le proprie caratteristiche strutturali. La seconda è che in molte opere questa griglia si deforma, abbandona l’ordine formale da cui pure proviene e tu stesso la dipingi in maniera più libera, con una pennellata che scardina completamente la sua origine razionale. C’è quindi una modificazione sostanziale anche di questa struttura inizialmente geometrica. Terzo elemento ancora, quando abbini questa griglia geometrica o più liberamente geometrica, con un pulsare in profondità di pittura che scorre, che si muove, che preme e indica ancora di più una situazione di drammaticità di una pittura che in qualche modo rappresenta anche simbolicamente un fermento di idee e di stati d’animo. Una frattura linguistica che diviene un momento importante e centrale, un nodo di fermento specifico nel tuo linguaggio artistico che poi si apre a tutte le fasi successive. La conflittualità diviene così il segno distintivo della complessità. Questi dipinti del ‘56 mi sembrano costituire il nodo centrale su cui si apre tutta una problematica che storicamente ti appartiene e anche come originalità di soluzioni il tuo è uno dei contributi certo più importanti. Tutto sta nella visione drammatica della razionalità, nei modi con cui hai condotto il suo scardinamento, perché altri artisti quando hanno affrontato questo problema, hanno mutato linguaggio, sono passati ad una informalità assoluta.

Nigro. Si può anche dire che mi avvicino più decisamente a Pollock, perché Pollock? Perché Pollock per reagire al sistema di vita americano alla fine si uccide in coerenza delle sue idee artistiche e io ho questa vicinanza, cioè una esasperazione espressiva.

Trini. Io proseguirei la lettura dei quadri di questo periodo, ‘55/56. Non c’è solo una griglia reticolare, nera, che si spacca e che nel ‘54 era l’inizio dello spazio totale. Qui c’è l’idea della struttura. La gabbia nera è pura spazialità prospettica, proiettiva, è una griglia che ha dei vuoti che vengono riempiti dal colore. Nigro agisce con una dimensione attiva che io vedo nelle pennellate di Franz Kline più che di Pollock. Nel ‘54 Nigro lavora su una griglia che è molto significativa. Per esempio, la rete. Da parecchi anni noi usiamo l’idea della rete come metafora del sapere generale entro il quale ci muoviamo. Noi diciamo che il sapere è una rete fatta di tante linee che si intersecano, tante discipline, tante nozioni, anche tante direzioni del tempo dove il senso delle cose viene rappresentato non per movimenti lineari separati ma per reticoli che si intersecano. E noi ci muoviamo liberamente su questo reticolo. Questo mi pare in Nigro molto importante, tanto importante quanto l’oltrepassamento della superficie fatto da Fontana con i buchi. C’è più di una similitudine tra il suo lavoro e quello di Fontana di quegli anni. Fontana oltrepassa la tela nel senso fenomenico dell’Action painting americana, Nigro invece la tiene ancora costretta, apparentemente alla superficie. Però nel ‘56, come diceva anche Accame, questa griglia si apre, sotto ne viene fuori una seconda, che è una sorta di fuoco cromatico. Riprendendo il costruttivismo Nigro è stato tra i primissimi artisti in Italia in quegli anni, forse in Europa, che hanno pensato all’idea della pittura come struttura, cioè un insieme di elementi che tra di loro devono essere non arbitrari, ma pensati, coordinati. Sennonché questa struttura viene sottoposta da Nigro a un’altra griglia, quella storicistica, cioè viene fusa con il sentimento della storia, dei drammi che la storia politica e sociale comporta. Nel ‘56 abbiamo due spazi, uno è quello della struttura che sta perdendo mordente sulla realtà della pittura, si sta rompendo. Un altro è quello della storia, visibile nel secondo piano cromatico-informale, che poi diventerà «le orme», ecc. Fin dal ‘56, il tuo mondo ideologico di artista di sinistra diventa come un fuoco che sta in un certo senso bruciando tutto, fin da allora tu presagisci forse la caduta dell’ideologia.

Cerritelli. Ecco, vedi che volendo allontanarti dal senso del testo di Nigro, che è quello di evidenziare un impegno politico, alla fine vi si è tornati in pieno. Voglio dire che la lettura linguistica che Accame ha proposto, e che è una lettura corretta ed essenziale per valutare quel momento di ricerca, ebbene questa lettura non può non ricollegarsi al rapporto con la realtà esterna che sta ancora molto a cuore al nostro artista. Le pagine scritte oggi da Nigro esprimono certo una spinta eccessiva sul pedale della progettazione politica, sull’utopia sociale di quei lavori; Nigro parla di impegno e di una serie di fatti storici che non siamo soliti legare al mondo delle ricerche artistiche. Ebbene, ripensando a questa posizione arte-politica, mi sembra che si sia persa tensione e traccia di questo rapporto nella nostra attualità, mi sembra in sostanza che questa mostra di tele di Nigro del ‘56, con relativo testo teorico attuale, può costituire un implicito invito ad interrompere una castità di lettura dell’arte attraverso i meccanismi interni all’arte medesima che oggi caratterizza l’interpretazione della pittura. Se non sbaglio, Nigro dice in sintesi che scegliere un colore pulsante, affidarsi ad una vibrazione pittorica piuttosto che ad una rigorosa composizione geometrica significa qualcosa in più della semplice percezione formale del dipinto, costituisce cioè un passo ulteriore, un impegno a fare del linguaggio uno strumento di intervento sociale. Ma è questo il senso che la mostra vuole risollevare?

Nigro. C’è sempre un rapporto fra l’artista e la politica che lo attornia. Quello che stavo dicendo è che la politica bisogna intenderla con la storia, negli anni in cui si vive, se noi vogliamo guardare gli avvenimenti del ‘56 o prima con gli occhi di oggi, non ci si capisce nulla, anzi, non ci si rende ragione. Io esco da una guerra, dalla Resistenza e da anni di terrore in cui non si sapeva la mattina se la sera si era ancora vivi. E una vita che oggi fortunatamente i giovani non hanno, però lascia un segno. Ora io mi faccio una domanda: se non ci fosse stata l’influenza della cultura americana, se non ci fossero state le delusioni della politica russa, l’arte in Italia, quale indirizzo avrebbe preso?

Cerritelli. Certo, certo è una domanda che non si può porre a cuor leggero. Cerco di riproporvi l’interrogativo che mi preme. Questa mostra, che va sicuramente letta come un capitolo importante nel percorso di Nigro per via di una scossa informale del colore entro la percezione di un reticolo spaziale di forte tensione, ebbene questa mostra che tipo di mostra è, soprattutto alla luce di questo benedetto testo che Nigro ha avuto esigenza di scrivere e di pubblicare? E forse una mostra nostalgica? E una mostra di memorie personali e di volontà di un nuovo impegno? La critica e il pubblico possono leggere questo ciclo del ‘56 liberamente, come fatto linguistico, oppure l’intenzione di Nigro vuole rimettere in moto qualcosa che secondo lui è andato perduto, ma di cui ha conservato la sensazione di una necessità non trascurabile, anche per i destini del presente e del futuro?

Nigro. È stata un po’ casuale la scoperta di questa mostra, però siccome io ho diversi capitoli, quello dello «spazio totale», i «terremoti», gli «orizzonti», ecc., ogni capitolo ha un suo senso. Io vorrei un po’ ricollegare questi capitoli. Quello del ‘56 è molto importante, così come quello del «terremoto». Ma io non voglio esaltare, voglio semplicemente esprimere una mia esperienza che per me ha un grande valore, ma ha in sé un valore politico. Pensa che io come comunista ho sempre preso delle legnate dalle Botteghe Oscure, dai funzionari, dagli intellettuali. Pensa che Vittorini diceva: «Questi cani rabbiosi che abbaiano…». Effettivamente il conformismo è una brutta cosa. Quello che mi interessa è che si parli di idealità politica non di ideologia politica. L’ideologia politica mi restringe. Cesare Luporini, mio professore di liceo, dice che non dobbiamo parlare di utopia comunista, ma di orizzonte del comunismo, questa però è sempre una ideologia, non una idealità. L’idealità supera l’ideologia e supera l’utopia. Il Cristianesimo quanti secoli fa è fallito? Non ce ne ricordiamo nemmeno. Tutto fallisce, ma c’è sempre qualcosa che rimane. Un problema morale. Quella che era la mia idealità politica è questa morale e questa solidarietà umana che poi ha una origine cristiana.

Accame. Volevo con maggior crudezza ritornare a quello che diceva prima Claudio, cioé lui notava come ci sia una estrema attualità del tuo lavoro, anche di queste opere del ‘56. Ecco, come questi quadri ci esprimono degli aspetti estremamente attuali mentre invece il discorso, quella parte del tuo discorso più riferita alle motivazioni socio-politiche dell’epoca, oggi, noi la sentiamo come inattuale. Forse anche per generazione ci è quasi estranea.

Nigro. Far quadrare la storia oggi è assurdo.

Accame. Questo lavoro però, storicamente e umanamente nasce da una situazione che tu hai vissuto in maniera diretta, di persona e quindi sotto una spinta di effettivi fatti e storici e personali, tu hai vissuto situazioni oggi superate come tali ma che hanno prodotto questo tipo di lavoro che noi troviamo tuttora estremamente interessante ed attuale. E qui voglio riprendere una cosa detta da Tommaso che mi sembra molto lucida, attenta e che condivido molto, quando riprendendo la tua immagine-reticolo l’ha collegata ad una visione, ad una forma del sapere oggi appunto di tipo non più piramidale, strutturata su delle certezze e delle verità assolute, ma una visione reticolare, di continue biforcazioni, di continui incroci, di continue germinazioni che nascono l’una sull’altra. Quindi il tuo grosso merito di artista, e con gli anni che passano, ne sono passati 35, di questi lavori è che su fatti storici oggi inevitabilmente superati si è prodotta un’idea innovativa, anticipatrice. Tu come artista ne hai tratto in qualche modo delle verità sovrastoriche, operando una sintesi di problemi nati da fatti contingenti di quegli anni. Hai capito come fosse da smantellare una visione che era ancora quella delle avanguardie, delle ideologie delle avanguardie, sorrette da ferree certezze e dense di utopie dove trovavano posto la chiarezza e l’assoluto. Mentre tu spezzi queste concezioni con il tuo «spazio totale» che nasce appunto una idea di complessità. Bisogna anche dire che non è la prima volta che l’arte anticipa la scienza o la filosofia. Tu come artista hai avuto allora un’idea oggi molto attuale, quella della complessità e di una visione non gerarchica del sapere. Un’idea della realtà come successione di eventi in continua espansione. E voglio qui citare uno dei filosofi che più degli altri portano avanti il discorso della complessità, Edgar Morin. Egli dice e corrisponde esattamente al tuo lavoro: «C’è dell’ordine nell’Universo, non c’è un ordine». Ed è, mi sembra, un concetto che si adatta benissimo alle tue strutture reticolari, come anche ai lavori che hai fatto dopo. dove il reticolo non c’è più. Per te è importante il contenuto concettuale. Ciò che permane nel tuo lavoro è l’idea, e forse è proprio questo l’aspetto che notava Tommaso quando diceva che tu, al di là di questo che si può cogliere visivamente, hai diversi punti di contatto con Fontana. Penso, sia sul piano più concettuale, cioè di una spazialità interminabile. In Fontana troviamo l’idea di uno spazio indeterminato e incontrollabile, di un naufragio infinito. Tu hai invece un’idea di grande totalità, sicuramente complessa ma con dei riferimenti strutturali. Nella tua navigazione vuoi essere più cosciente. Questo aspetto della complessità che emerge dal tuo lavoro già di allora, come ho detto, anticipa una situazione straordinariamente contemporanea e viva di un modo di sentire, di vedere e di affrontare oggi la problematica del sapere in senso generale, scientifico, filosofico e anche artistico.

Trini. Questa mostra e questo testo che non sono avulsi dal fatto che Nigro scrive normalmente da tempo puntualizzando il suo rapporto continuo con la socialità degli avvenimenti che nel corso della sua attività lo hanno influenzato. Cerritelli si domandava: «C’è qui il preannuncio di un recupero del rapporto della pittura con la realtà e con un movimento complessissimo della realtà sociale quale molti si augurano?». La mia risposta evidentemente è sì. Il lavoro di Mario si è molto evoluto, io ricordo benissimo che cosa era nel ‘66-67 quando noi eravamo giovani e all’inizio del nostro lavoro, io ero a Torino, seguivo i torinesi e lui ha fatto dei lavori che erano estremamente «concettuali». Nigro ha una grande capacità di essere sempre al presente nel suo lavoro, è apparentemente isolato, certamente solitario, ma è anche colui che ha dei principi saldi. Tu hai sempre avuto principi saldi. Non credo che noi abbiamo ancora bisogno di recuperare all’arte l’influenza tra il linguaggio e gli avvenimenti sociali poiché tutta la realtà ormai è diventata un luogo figurativo, così come l’arte è diventata un grande campo di esperienze, di comportamenti e di sperimentazione di modelli filosofici e di analisi linguistiche. Nigro ribadisce ancora una volta che all’inizio del lavoro dell’artista esistono dei principi etici. Ciò che lui chiama idealità, io la intendo come valore morale, come impegno etico a ricollegarsi con la lotta e la sofferenza. Ed è questo che avverto ribollire nei lavori dei più giovani, in un certo spiritualismo vagabondo nei lavori dei giovanissimi, nelle lande un po’ sperdute dell’immaginario che ormai è globale e planetario.

Cerritelli. Comunque, questa mostra ha il merito, con tutte le questioni che stiamo dicendo, di non perdere di vista la problematica del dipingere come fatto di ricerca della qualità pittorica. Insomma, queste tele, a distanza di oltre trent’anni, comunque le si vogliano leggere, sono testimonianze ancora dell’energia immaginativa di un artista straordinario come Nigro. Va sottolineato proprio questo: possiamo permetterci di parlare di aspetti coincidenti e paralleli alle opere proprio perché siamo intimamente convinti che queste opere hanno una loro forza, non dico autonoma, ma certamente collegata alla storia della pittura contemporanea del secondo dopoguerra. Il rigore di questa mostra così insolita, il ‘56 visto dal punto di arrivo del ‘91, ha una compiutezza formale e un valore storico che ne fanno un’occasione complessa per meditare su Nigro come valore esemplare della pittura e come sintomo di un impegno irriducibile verso la realtà. La cosa interessante è che tutta la tensione dell’artista verso un qualcosa che è oltre il linguaggio della pittura non fa perdere tensione e verità specifica alla pittura medesima. Ci sono artisti che allentano la tensione del lavoro nel momento dell’impegno extrapittorico, qualunque esso sia; per Nigro mi sembra che non ci sia mai questo rischio, le tensioni si congiungono, forse perché non partono divise ma costituiscono due modi complementari di essere pittore, di fare l’artista. Questo mi fa molto pensare e penso che dovrebbe far riflettere chiunque veda ancora la pittura come una ricerca viva, in atto.

Nigro. Mi nasce il problema umano, forse questa è veramente la nostalgia? di una gioventù perduta…

Accame. Direi che è una tua caratteristica che poi si riconosce anche in un andamento del tuo lavoro, spesso per cicli. Non a caso c’è stato anche un ciclo del tuo lavoro che assume un valore simbolico: gli «Orizzonti». Tu di volta in volta ti poni questo orizzonte, questo estremo confine e questo ha fatto sì che nel tuo lavoro sei sempre riuscito in ogni fase, in ogni momento, ad avere una coerenza che è per prima cosa una qualità sostanzialmente morale poi, successivamente, formale. Non si può fare a meno di riconoscere che sei sempre in una zona estrema, che ti mantieni sempre in una zona scottante, in un punto di tensione. Non c’è mai nel tuo lavoro un attraversamento, un lungo faticoso attraversamento di territorio, ti muovi sempre su una linea di tensione che è la linea al limite. Nei tuoi cicli non c’è tutta la storia, tutta la traiettoria, già da quando inizi un certo ciclo, ti muovi dall’estremo e il tuo percorso è da quel limite invalicabile in avanti, sempre oltre.

Nigro. Spesso si accavallano, ho notato questo, non è ancora finito un ciclo che ne comincio un altro, una volta dicevo a Marcella che sono un artista fallito.

Trini. Tu, che sei stato tanto costruttivo sei anche abbastanza distruttivo, tu crei e distruggi nel giro di due anni, sei come la Biennale. Ciò ti permette sempre di ricominciare e di essere ciclico, in fondo. E allora cos’è che dovresti distruggere adesso?

Cerritelli. Probabilmente il meccanismo del lavoro è quello di raggiungere attraverso un pieno rapporto con il reale un grado di tensione totale, di raggiungerlo nella pittura nel momento in cui essa è al massimo. Mi sembra di capire che un artista come Nigro non dipinge quando non è al massimo della sua tensione conoscitiva ed emotiva, anche morale dunque; mi chiedo se la sua storia di immagini continui a stimolarlo, a urlargli dentro come una specie di moto che deve portarlo sempre verso questa tensione. Trovo che sia così, e questo è il bello, l’importanza di un artista che sa vedersi da lontano, sa riconsiderarsi senza timore di mortificarsi, sa cogliere serenamente le antiche tensioni proprio perché in ogni punto del suo percorso c’è una tensione che merita di essere riletta, senza timore del passato; in fondo questa preoccupazione potrebbe lasciarla agli altri, ai critici per esempio… Forse credere di essere fallito è un modo per ricominciare, per ricaricarsi, è un meccanismo emotivo e mentale per riconquistare tensione sul lavoro e riprendere a dipingere, a vivere, anche a teorizzare.

Trini. La domanda che allora noi dobbiamo porti è questa: «Oggi, dopo la caduta degli stati socialisti, dopo la trasformazione del PCI, quali sono i possibili fallimenti che per idealità, un artista come te può rischiare?

Nigro. Antitutto ho il problema dell’esistenzialità, farò in tempo a fare quello che vorrei fare? E una tragedia per me, non è che io abbia paura di morire o altro, ma è che io non riesco a vedere come posso veramente concludere il mio lavoro. Questo è un fatto tragico.

Trini. Concludere un progetto globale? Oggi più che una realtà hai una visione di ciò che sta accadendo.

Nigro. Evidentemente oggi siamo in una fase di nazionalismi estremisti, infatti a volte paragono gli Stati Uniti all’Impero Romano. Decadenza e caduta dell’Impero Romano. Decadenza e caduta degli Stati Uniti, ma non per la formazione di regimi socialisti, ma per la formazione di nuovi regimi capitalisti e nazionalisti. Tanti piccoli regimi nazionalisti e capitalisti in tutto il mondo determineranno il crollo inevitabile degli Stati Uniti. C’è una finzione egemonica che non regge, allora quali rapporti con il mio lavoro? Un rapporto un po’ di sfiducia alla fine, perché non ha retto l’Unione Sovietica che oggi l’America si mangia in un boccone, militarmente. Perché cosa esiste al mondo? I rapporti di forza, non esiste altro. Quando l’America aveva la bomba atomica è arrivata la guerra fredda, perché anche l’Unione Sovietica ha acquistato la bomba atomica; ora che l’America ha inventato l’arma al neutrone, distruggendo 200.000 fratelli e la Russia non ce l’ha, quando l’avrà nascerà una nuova guerra. Questi sono rapporti di forza. Cosa voglio dire con queste cose? Il mio smarrimento ideologico davanti al quadro, mi sento smarrito come uomo. Non voglio pedalare la politica, purtroppo è la politica che mi sovrasta.

Trini. Vuoi insinuare che hai sempre dipinto sentendo l’inanità del dipingere? L’inadeguatezza del lavoro dell’artista?

Nigro. Fare l’artista è proprio necessario? Cioé oggi l’artista senza voler demonizzare niente, è una funzione soprattutto del mercato di oggi, molto pratica. Non è più l’artista impressionista che è uno sciagattato, guardate Van Gogh, lo stesso Modigliani, ma il mercato li ha presi dopo. Può essere anche un handicap, non penserai che tutti gli artisti siano geni? Anzi!

Cerritelli. Quindi non ritieni che il sapere della pittura possa costituire una carta ancora da giocare? Io credo invece, proprio frequentando pittura e pittori, credo che dipingere abbia ancora un forte senso, collegato al punto di vista intramontabile della superficie dipinta, questo luogo ancora carico di’ mistero, di fatica, e di effettive possibilità di farsi strumento di conoscenza lirica, poetica, perché non, dunque, politica. Anche se la pittura è condizionata inevitabilmente dal mercato, il pensiero di dipingere mantiene ancora effettivi margini di invenzione, di vita immaginativa, anche in senso esistenziale. Mi piace il pittore che dice: io mi attesto sul linguaggio del colore e qui creo la mia differenza, la profondità della mia conoscenza. Non mi sembra poco, proprio perché mi pare una posizione antica, degna di essere attesa e non liquidata con formule di comodo.

Accame. Proprio tu dicevi prima che di fronte alla tela, al lavoro, spesso ti senti smarrito, e in questa situazione sviluppi una tendenza che è anche distruttiva. In un certo senso tu stesso cerchi di porti nella situazione dello smarrimento perché, in uno solo di questi tuoi cicli in cui altri artisti potrebbero restare incartati dentro per anni e anni tu ne esci rapidamente. Tu stesso lo hai consumato, esaurito in pochi anni, poco tempo, ma questo credo proprio perché hai bisogno continuamente di sentire il tuo lavoro di artista come una sfida e quindi quando senti che mentalmente hai esaurito, anche se materialmente ci può essere una infinita possibilità di varianti, quando mentalmente senti di avere esaurito un problema, devi per forza porti un’altra sfida. Torniamo al discorso che dicevo prima di essere sempre in frontiera, in confine, di provare questa scossa di smarrimento per avere lo shock di riprendere, di ricominciare.

Nigro. Io sono distruttivo, effettivamente.

Accame. Però è un fuoco che come sempre distrugge per creare, non c’è creazione senza una precedente distruzione, quindi tu bruci ed esaurisci queste tue idee per poi poterne produrre altre. Per porti un’altra sfida, una sfida costruisce l’altra, perché se poi andiamo a vedere questi momenti della tua pittura non sono casuali, l’ordine non può essere modificato c’è una logica di successione, c’è una logica anche se tu non ti poni programmaticamente.

Trini. L’ultima domanda è questa: noi siamo al di qua della griglia dei tuoi quadri, quello che c’è al di là è un interno o un esterno? E’ un’analogia della società o un’analogia dello spirito?

Nigro. Questo è il problema che mi si è posto quando facevo gli Orizzonti, cosa c’era al di là?

Accame. C’è una frase in una lettera di Rilke che dice: «Non c’è un al di là e un al di qua, c’è una grande totalità».

John Cage, prefazione a Hwang Inkyung 2000

“Prefazioso” (2000). Fare, non fare, pensare, non pensare: sono atti speculari, di cui il negativo è solo un simulacro del positivo. Tra loro non c’è vera differenza, ma dialettica; la differenza sta tra i diversi specchi. Prendiamo il silenzio che succede alla creazione, quale fu simulato da Marcel Duchamp nella seconda parte della sua esistenza. E accostiamolo al silenzio musicale, inscenato mentre la musica è comunque attuata, sia pure insonorizzata, certo in differita, quale fu invece materializzato come durata da John Cage, suo carismatico seguace. Duchamp, maestro di attimi, mi parla. Il suo seguace mi fa parlare: ma di che, scusi? Ecco, Cage, lo dice il nome, mi ingabbia. Non si collocò a lungo fra i miei maestri.

E’ il Creatore che riposa dopo la creazione, tacendo. Duchamp, che mai si diede al silenzio, se non quello di una partita di scacchi, passò dal giorno alla notte, dalla notte all’alba, affidando la sua opera ai vari cicli diuturni. Aveva creato un mondo ready-made e non volle che proliferasse, avendo orrore dei futuri Arman; né che infrangesse, più del vetro, le precise leggi che ne reggono l’evoluzione; e lo lasciò annottare e poi rinascere. Al contrario, il musicista Cage levò un giorno le mani dai suoni e dai pianoforti, dei quali sabotava le corde, e sospese i suoni ma non la musica: fu giocoforza chiamarla silenzio. A volte, esibì il silenzio in prima persona, davanti a tutti, chiedendo silenzio al coro, in un generale s/concerto; più spesso, tornò a comporre. Le sue leggendarie performance che non hanno secondi fini, né spirituali né fideistici, sono minuti di liturgia dell’ascolto di sé. Molto diverse, dunque, dall’ascolto del sacro in cui si immergono, io suppongo, i monaci trappisti; e dalla meditazione zen che oltrepassa anche il sacro per inoltrarsi nel vuoto. A Cage diedero sostegno lo Zen, nonché il Tao, nella fattispecie del “wu wei”, il non-agire. Mi spiace che li abbia tradotti in una sbrigativa pausa una tantum della liturgia del conta minuti.

Lo spettacolo del non-suonare ha però segrete risonanze magiche. La sua prima celebre piece – intitolata 4’33” – potrebbe riecheggiare un numero sacro del Taoismo (è stato già detto?) relativo all’armonia numerica della creazione dell’universo: ossia, 3 x 3 x 3 x 3, quattro volte tre – che moltiplica a 81, tanti quanti sono i passi del Tao Té Ching. E ciò nondimeno, Cage resta un “lao-tse” americano, un vero maestro, saggio e giocoso. L’ha compreso bene Hwang Inkyung, che gli affida con entusiasmo la guida del suo saggio, inizialmente concepito come uno studio centrato sul gruppo Fluxus. Ricordo la crescente passione in cui la giovane artista coreana ha affilato la mente solo su Cage: stava risalendo a un insegnamento degno di tal nome. E’ vero, il maestro di Silence ha l’ andamento socratico di uno Jedi dell’arte, un ragazzo magistrale, maestro (lao) e infante (tse) al contempo. Con Duchamp, Allan Kaprow, Paik e altri protagonisti di Fluxus, Cage è stato e resta fra i didatti sovrani del pensare artefatti senza confini al pari della musica.

Grazie, Inky, per avermi indotto a riconsiderare il mio disagio verso John Cage, mentre indirizzavo la stesura della tua tesi di storia dell’arte all’Accademia di Brera, da cui trae origine questo libro. Sei salita (provvisoriamente) sul “treno di Cage”, così come in passato i giovani più audaci salivano sul “convogli del Surrealismo” (André Breton ne fece partire almeno tre), viaggiando, come vedi, lungo la stessa metafora. Straordinario incontro con un viaggio storico che ha risposto al tuo bisogno di appartenenza solidale e ti ha cresciuta. Eri una scultrice, con Cage hai respirato musica, ora sei una videoartista.

(Insegnamento come arte? No, grazie. La chiamano Teach art. E’ la carta del tè).

Egualmente istruttivi, per i miei orecchi afoni, risultano gli echi ridotti che Hwang Inkyung riserva nel suo testo all’assimilazione della filosofia Zen da parte di Cage, come pure al ruolo del proprio connazionale Nam June Paik. Ne tratta bene quanto basta, ma non in primo piano, perché? E’ strano, poiché la Corea ha meriti antecedenti. Fu l’antico Paese dello yin e yang che consolidò il Ch’an cinese, alla confluenza della dialettica del Taoismo materialista con l’etica del Buddismo indiano, prima di consegnarlo allo Zen del Sol Levante. E’ stato Paik a fondare la videoarte nel segno della multimedialità digitale, offrendo la prima icona mondiale della cultura moderna a Seul, dove oggi è onorato con  un museo. E Inky, tuttavia, l’artista coreana entusiasta di Cage come già lo fu Paik, oggi mantiene bassi i profili di costui e dello Zen, cui si richiamò anche lo sciamano del video.

Avrà le sue buone ragioni. La prima delle quali è che l’opera di Paik non riveste intenti didattici, affascina ma non insegna; lui stesso evitò sempre di atteggiarsi al ruolo di maestro, non essendo stato discepolo di nessuno. In scena era ilare e divertito. Come professore nella lontana Germania, in effetti, non fu granché solerte, preferendo restare a New York. Soffrendo di crampi allo stomaco, si stringeva a una borsa d’acqua calda anche al bar (così l’incontrai più volte) al modo con cui l’antico taoista cavalcava un bue. La seconda ragione è che Paik fu sodale di Bueys non meno che di Cage, tanto che la influenza della simbologia animistico-sciamanica sulla sua opera è più importante della influenza cageana. Quanto allo Zen, Paik l’ereditò alla nascita, Cage lo apprese dai libri.

E’ accaduto questo: che Lao Tse fu meno vincente di Confucio fin da tre secoli a. C.; che l’ordine pur sapiente del Confucianesimo, in quanto ideologia, complesso di idee dominanti, ha tenuto il sopravvento sulla molteplicità disordinata dei taoisti, che sapienti non vollero mai essere né saggi, fino ai nostri giorni, fino a John Cage. E prevale tuttora.

Come dire che l’oscurità del divenire viene tenuta al buio dalla luce dell’essere, sia pure artificiale. Le antiche nozioni orientali che ispirarono il suo lavoro (il caso, il non-agire, le mutazioni, fra altre), fornirono a Cage un disegno e un metodo, rivolti a educare in relax.

Più silenzio che rumore, più buio che luce. Qui si ricorda come Cage, un esperto micologo, ebbe inizialmente gloria popolare in Italia per aver risposto a tutte le domande sui funghi, le più velenose comprese, a “Lascia o raddoppia”. Ora, i funghi sono una rara forma di vita che cresce nell’oscurità, non avendo bisogno di luce né fotosintesi. Il buio è il fodero del silenzio, come la luce è la faretra degli schiamazzi. Sta anche in tale ombra, la mancata visualità plastica dell’opera di Cage, che stende un buio tra Duchamp e Paik.

Ogni insegnante aspira a lavorare con allievi di vaglia che possano rilanciargli il varco a un’altra esperienza istruttiva. I migliori allievi gli restituiscono l’entusiasmo per le discipline che condividono nella breve stagione di un corso di studio. E’ quanto il vagone di Kwang Inkyung ha fatto per me con l’elaborazione di questo libro. Gliene sono grato. E per dimostrarglielo, la invito a scendere dal treno di John Cage, il tempo di una sosta lampo, per dare un’occhiata alla lavagna di un’aula del Caltech, la prestigiosa università californiana, la sera in cui Richard Feynman vi concluse i suoi insegnamenti. Era il 1988.

Richard Feynman è il maestro che avrei voluto io. Lo considero un grande artista dell’insegnamento, benché trattasse di fisica quantistica con matematica ardua, di cui ho imperfetta ignoranza. Del resto, Feynman fu un meraviglioso insegnante, affabulatore e insieme enigmatico, a detta dei colleghi oltre che degli allievi. Lo testimoniano i suoi testi di scienza, che nella mia biblioteca stanno con la narrativa, e il fiume di registrazioni del suo fascino didattico. Finita l’ultima lezione, il prof restò solo in aula. L’indomani sarebbe stato ancora uno dei maggiori fisici americani del XX secolo, un Premio Nobel. Feynman tornò alla lavagna e scrisse: Non capisco ciò non posso creare. Uscì, restando in scena.  Attualmente nessuno si domanda più cosa sia l’arte, poiché questa sta ovunque, nei panini inclusi. Dicono che l’Universo si è formato attraverso una fase inflazionistica: debbo avere perso parecchi milioni di anni di Universe Art. (Ma non sono sfuggiti a John D. Barrow, lo scienziato che ha scritto il bel libro An Artful Universe, un universo fatto ad arte). A chi mi chiedesse cos’è l’arte, risponderei che è entusiasmo, freddo entusiasmo, non frenetico. E c’è ancora qualcosa che non sia arte? Sì, ciò che faccio io: insegnare. L’insegnamento non è divenuto un’arte, l’insegnamento è sfuggito all’inflazione. Per ora. [Tommaso Trini, 2000]

Alberto Allegri – “Ambiente Bodoni” (1999)

«Il libro ha destato qui ammirazione, si cerca con avidità, e si pagano volentieri li sei zecchini per averlo. L’augustissimo nostro Monarca se n’è compiaciuto oltre modo. Si è degnata la M. S.… di ordinare che si palesi effettivamente questo suo compiacimento al Signor Bodoni… Sua Maestà ha voluto che il regalo sia fatto non come ad artefice, ma come a uom di lettere.» Così un autorevole teologo bibliotecario riferì da Torino come il primo dei suoi capolavori – l’in-folio Epithalamia del 1775 – valse a Giambattista Bodoni il riconoscimento di letterato. L’ancora giovane piemontese, ormai celebrato creatore della Reale Stamperia del Ducato di Parma, l’aveva dedicato alla Casa di Savoia per le nozze del principe ereditario. Il re lodò in lui lo stampatore o “uom di lettere” più del geniale “artefice” di alfabeti e di caratteri tipografici. Quanto al regalo, esso consistette «in una scatola d’oro, con entro sestuplicate tutte le monete d’oro di questa Reale Zecca, e con non so quali medaglie». Oggi, le grandi lettere in acciaio che Alberto Allegri discende dal cielo di Bodoni, e solleva tra gli environments della post-avanguardia, sono oggetti puri di uno scultore puro, anche se proteiformi per i nostri sensi. […] Ora uno scultore dei pressi di Parma va costruendo le sue sculture metalliche a immagine delle lettere di Giambattista Bodoni (1740-1813). Le modella in officina con macchinari alfanumerici dal laser tagliente, compitando vocali e consonanti. La sua proposta è semplice: creare un alfabeto ambientale. Artista di vero talento progettuale, versato nel disegno, sempre incline a smaterializzare il linguaggio plastico, togliendo dimensione e peso alla scultura a  favore di un’immaginazione mercuriale degli spazi, lo scultore emiliano Allegri ha cominciato da due anni (inizio ’98) a trasporre a misura della figura umana – in una sorta di alfabeto abitabile – uno corpus grafico fra i più celebri al mondo: il ciclo, appunto, delle “lettere bodoniane”. Per la prima esposizione a Parma, ha progettato la costruzione in acciaio inox delle otto o nove lettere che comporranno la copertina pubblica dell’intera opera: A GB BODONI; i cui caratteri sono improntati, ovviamente, al classico Manuale Tipografico di questi, al suo moderno bodoni “dall’occhio rotondo e marcato”. Situata tra gli alberi di un giardino, l’elegante corsivo della scultura A inscenava un angolo d’Arcadia; l’insieme simulato di D, G, I, mi ha ricordato quei “mobili nella valle” dipinti da De Chirico nel ’27 e ripresi prima della Pop art. Tali sculture vivono in situ, mobilitano la nostra percezione secondo il luogo in cui sono poste e il fraseggio che il “copione” progettuale ha loro assegnato; prive di senso, che non sia quello più letterale, cambiano di significato col mutare della articolazione interna dei segni, dell’installazione che ne regola i rapporti spaziali. Li possiamo considerare come degli oggetti “attanti” che agiscono senza recitare. […] Attivo fra gli eredi più duttili del modernismo della scultura in ferro, la cui “tradizione del nuovo” risale agli anni Trenta e tuttora continua a recepire materiali poveri o artificiali (il piombo, le plastiche), Allegri si pone fra coloro che ne hanno rinnovato il corso e le finalità in direzione di un più ampio coinvolgimento dello spazio e delle relazioni ambientali, mediante “segni” minimali, o “volute” bidimensionali, sempre volti a rilevare, dunque “scolpire”, le forme e le luci incidenti in rapporto all’architettura circostante. Per restituire alla scultura e, per suo tramite, allo spazio dell’intervento, il senso di luogo radicato, Allegri ha innervato elastici nastri metallici, o composizioni polimateriche di forme vegetali sorrette da cornici (premonitrici, forse, delle attuali scatole tipografiche), in architetture quali la Rocca Sanvitale di Fontanellato, per un’installazione con performance (“Andando al Parmigianino”), o all’interno di numerosi altri edifici. […] Visionario al di là del suo minimalismo plastico, questo scultore dai segni fluenti è intervenuto più volte sul territorio, sfogliandolo come fosse un libro. Ha progettato di “incoronare” a tremila metri il picco del Campanile Basso  nelle Dolimiti del Brenta con una fascia di stoffa color porpora, un segno nuziale. Quindi, ha realizzato una trama vascolare di tele bianche su un terreno sotto una bocca del Vesuvio. Ecco, tale è lo slancio sul quale la sua odierna, mobilissima scultura bodoni apre un’altra pagina inedita del linguaggio plastico, nell’incontro con la storia della stampa, come pure attraverso l’incontro tra i vecchi codici degli alfabeti e i nuovi linguaggi iconici. […] Levate a scala ambientale e rivolte alle percezioni sonore, cinestetiche e tattili, queste “lettere bodoniane” mentalmente combinatorie consentono scambi avanzati più di altre sculture contemporanee. Altro non bisognerà aggiungere sull’evidenza che Alberto Allegri, già indiziato nel nome dall’eco del conterraneo Antonio, detto il Correggio, dovesse risalire al Bodoni, principe dei moderni tipografi, dopo avere dialogato con gli affreschi del Parmigianino. Dopotutto, il nostro scultore bodoniano lavora in un piccolo abitato sulla via di Parma presso Fontanellato che reca il nome semplice e presago di Parola. [Tommaso Trini, 1999]